Nulla è più dolce della consolazione nella preghiera. Chi è arrivato a gustare qualche volta quanto è dolce il Signore, facilmente pensa che sia valida solo la preghiera che si accompagna alle consolazioni. È un errore, perché ciò che conta non è quello che noi sperimentiamo nella preghiera, ma ciò che da essa Dio riceve, e spesso Dio riceve di più, quando a noi sembra di aver ricevuto di meno.
Non è difficile pregare con fervore quando si gode della consolazione. Ma continuare a pregare nella desolazione, glorifica il Signore; denota una fede solida, una ferma speranza, una carità fedele e vero amore.
Ricordiamo che, per essere esaudite, le nostre domande devono sempre avere questa condizione: la maggior gloria di Dio. Non il piacere o il dolore delle creature, ma la gloria di Dio: a questo deve essere orientato tutto. Non la mia volontà, ma quella di Dio.
Molte volte, soprattutto quando siamo nella tribolazione, importuniamo il cielo con richieste che ci sembrano buone, ma inutilmente, perché il Signore vuole il sacrificio. Vuole che il cuore, anche se al limite della disperazione, si sottometta alla dura sorte che Egli gli presenta. Vuole che gli offriamo il profumo della perfetta rassegnazione e che ripetiamo tante volte: Dio mio, non la mia, ma la tua volontà.
Se desideriamo sinceramente pregare bene, guardiamo Gesù nell’orto degli ulivi. Ci presenta tutte le condizioni esterne necessarie ad una perfetta orazione. Si allontana anche dagli amici più intimi, per insegnarci che è necessario separarci dagli uomini se vogliamo parlare con Dio. Prega in silenziosa solitudine, per insegnarci che dobbiamo pregare lontano dal chiasso e dagli affari degli uomini.
Gesù si pone in ginocchio, con le mani giunte in atteggiamento di profondo rispetto e compostezza. Le mani giunte indicano, in un certo senso, essere come schiavo legato di fronte a Dio. Inginocchiarsi è farsi piccoli, umili davanti a Dio. Prostrarsi a terra, è prendere la posizione della vittima che, disposta a ricevere il colpo mortale, dice: eccomi, fa’ di me quello che ti piace.
Come conservate la compostezza esteriore nella preghiera? Considerate che un contegno rispettoso è già preghiera. E’ espressione di fede e contribuisce a disporre lo spirito al raccoglimento, a suscitare e ravvivare la coscienza di stare alla presenza di Dio. Un contegno di profondo rispetto edifica gli altri e li invoglia a pregare. Dato che pregare è mendicare, l’atteggiamento umile e riverente del mendicante appoggia e sostiene la preghiera e la rende efficace per ottenere le grazie che chiede.
La preghiera di Gesù nell’orto ha anche tutte le condizioni interiori essenziali per essere autentica: la fiducia filiale espressa con il dolce nome di “Padre”. Pur in un’amara sofferenza Dio non cessa di essere Padre, anche quando lascia pesare su di noi la sua mano, anche quando sembra averci abbandonato nell’oscurità e nella desolazione interiore. Chiamarlo ancora Padre in tali momenti, indica una sincera fiducia.
L’obbedienza e il perfetto abbandono alla volontà di Dio: “Si compia, Dio mio, la tua volontà anche se mi fa molto soffrire. Si compia, Dio mio, la tua divina volontà anche se non la comprendo. Si compia, Dio mio la tua divina volontà anche quando non la vedo. Si compia la tua volontà in tutto e per tutto”.
Soprattutto nella sofferenza dobbiamo essere molto osservanti nell’adempimento del nostro dovere ed avere ancora più mansuetudine.
Se tutto si presenta piano, senza ostacoli, e percorriamo una strada ben delineata, in situazioni gradite che rendono semplice la vita, tra lodi e onori che addolciscono i nostri doveri, è facile essere precisi nel compimento del dovere.
Ma diventa molto difficile, quando per indisposizione del corpo o dell’anima, si perde il gusto di ciò che si deve fare e il dovere viene offuscato da ombre oscure. In tal caso è facile assecondare la tentazione di abbandonare tutto, soprattutto di trascurare la cura degli altri per preoccuparci solo dei nostri mali e dispensarci dagli obblighi che esige la nostra vocazione: carità, sacrificio, abnegazione e lavoro.
Il Maestro ci dà l’esempio. Egli non solo si sacrifica e soffre per tutti, ma arriva a dare la vita, e lo fa senza alterarsi, nonostante la sua anima sia gravata dalla sofferenza interiore.
Nonostante la debolezza, il tremore delle gambe e un’altissima febbre, tre volte torna dai suoi per avvisarli e premunirli, come buon Padre e Pastore delle loro anime.
E noi? Quando si soffre diventa difficile il compimento fedele e costante dei propri doveri, ma ancor più conservare la mansuetudine, la pazienza e la benignità. Le sofferenze del corpo e il turbamento interiore, infatti, scoraggiano l’anima, la caricano di eccitazione, la impressionano vivamente, la rendono elettrica, ferita e piagata, per cui qualsiasi rapporto con gli altri le procura forte agitazione. Come è facile che si avverta l’impulso di far pesare sugli altri gli effetti della propria amarezza, con violenti rimproveri, impazienze ed un continuo malumore.
Non è questo l’insegnamento di Gesù. Egli avvisa e rimprovera con gravità i discepoli, ma senza agitazione e senza parole pungenti che offendono, nonostante il loro comportamento sia totalmente contrario a quanto Egli ha loro insegnato e a mala pena scusabile. Ma il cuore mite e buono di Gesù, colmo di compassione per la loro debolezza, trova parole di scusa. Sebbene cadano per tre volte, li tratta come figli deboli e dice: “Lo spirito è pronto, ma la carne è debole”.
Quante volte anche noi abbiamo riscontrato una simile debolezza perfino nelle persone migliori. Ciò che più mi fa soffrire e mi stupisce è vedere le mie figlie cadere nei medesimi errori, debolezze e miserie, nonostante tantissime esortazioni; e non è sempre facile mantenermi indulgente e benigna. Ci sono riuscita solo quando, nel mio dolore, ho fissato lo sguardo sul buon Gesù e ho visto che lui si è mostrato mite proprio quando la sua anima era più afflitta: nell’orto, nel cammino verso il Calvario e sulla croce.
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