Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano.” Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato»”. La Parabola del fariseo e del pubblicano è una parabola di Gesù raccontata solamente dal Vangelo secondo Luca. Al tempo di Gesù i Farisei erano un gruppo religioso molto stimato all’interno della comunità a motivo della loro adesione rigorosa alla legge di Mosè. I pubblicani, invece, erano ebrei che collaboravano con l’Impero romano, riscuotendo a loro nome le tasse, e godevano di una fama pessima. Venivano considerati peccatori pubblici. La parabola inizia evidenziando il fatto che “essere giusto” non è mai una condizione nativa della persona umana, infatti, il cristiano non è mai giusto davanti a Dio. L’eccessiva sicurezza della propria innocenza, specialmente quando ha come risvolto pratico un atteggiamento giudicante e intollerante verso il prossimo e verso i suoi errori, è qualcosa che dovrebbe far pensare. Il cristiano non si configura come un uomo “giusto”, bensì come un uomo riconciliato, perdonato, giustificato da Dio. Ecco perché questa parabola mostra questo “quadretto” tra due modelli: l’uomo che difende la sua giustizia personale, che Dio non convalida, e l’uomo che si arrende davanti alla misericordia di Dio e viene giustificato. Il fariseo dichiara la verità. È vero che osserva attentamente la Legge e ha grande spirito di sacrificio. Non digiuna soltanto un giorno alla settimana, come prescritto, ma due. Egli sta in piedi, con le braccia alzate e la testa rivolta verso l’alto. Ringrazia Dio, nella forma canonica della preghiera biblico-giudaica: la lode e il ringraziamento a Dio per essere esente dai vizi degli altri uomini, e poi perché è ricco d’opere meritorie. Osserva attentamente la Legge e il compimento della volontà di Dio, anzi completa le prescrizioni rituali con pratiche supplementari. Formalmente, come possiamo notare, si tratta di una preghiera irreprensibile, il suo torto però non sta nell’ipocrisia, che Gesù smaschera senza mezze misure, ma nella fiducia nella propria giustizia. Egli si ritiene in credito presso Dio: non attende la sua misericordia, non si aspetta la salvezza come un dono, ma come premio che gli è dovuto per il bene fatto e per avere seguito le norme rigidamente. Il pubblicano, l’esattore delle tasse, è spaesato, confuso nel luogo del culto, tanto che se ne sta in fondo, quasi temesse di disturbare, di essere un estraneo. Non è neppure in condizione di assumere il contegno normale di chi prega. Si batte il petto come un disperato, supplica istintivamente perché si sente peccatore che non è in grado nemmeno di elencare le sue colpe, sussurra, infatti: “Dio, abbi pietà di me peccatore”. È consapevole di essere un peccatore, sente il bisogno del cambiamento, di una rinascita e, soprattutto, ha la consapevolezza di non poter pretendere niente da Dio. Nulla ha da vantare e nulla da esigere. Può solo sperare. Fa affidamento su Dio, nella sua misericordia, non su se stesso. Questa è l’umiltà di cui parla la parabola, l’atteggiamento che Gesù loda: non elogia la vita del pubblicano, come non ha disprezzato il fariseo. Il fariseo si presenta “in piedi”, che si potrebbe anche intendere “a testa alta”, pregando come qualsiasi altro pio israelita, e tra le righe possiamo intravedere anche una componente di orgoglio nel fatto che questo suo stare ritto lo poneva in qualche modo in posizione di essere notato da altri. Pregava per essere visto, lodato, celebrato, riconosciuto, quasi che la sua preghiera fosse più rivolta a se stesso che a Dio, congratulandosi a se stesso per le sue pratiche devozionali. Usava il ringraziamento a Dio per esaltare se stesso. Ringraziava Dio per non essere come gli altri uomini, Il pubblicano, l’esattore delle tasse, è spaesato, confuso nel luogo del culto, tanto che se ne sta in fondo, quasi temesse di disturbare, di essere un estraneo. Non è neppure in condizione di assumere il contegno normale di chi prega. che con ogni probabilità disprezza e condanna, per essere onesto, per non aver mai fatto male a nessuno, per essere andato in chiesa a tutte le feste comandate, e così via. Anche il pubblicano sceglie la solitudine, si ferma in fondo, col capo chino, in un atteggiamento di contrizione che è ben diverso dalla superbia arrogante del fariseo. Anch’egli si rivolge a Dio: non per vantarsi, ma per implorare misericordia: confessa la sua indegnità interiore. Questi due “atteggiamenti” fondamentali dello spirito umano, l’umile e il superbo, dimostrano il loro vero valore: lo spogliamento del proprio io, la povertà di spirito opposti all’arroganza egoista, manifestata con il complesso della superiorità morale. Il testo greco ci suggerisce che il pubblicano non si sentiva un peccatore, ma il peccatore, il peccatore per eccellenza. Non ha null’altro in cui confidare se non la misericordia di Dio. Non cerca aiuto da nessun altro, se non da Dio. Sa benissimo che gli altri uomini, farisei di ogni genere in testa, non lo degnano nemmeno di uno sguardo, ma crede fermamente nella misericordia di Dio. Il cuore umiliato ha il sopravvento sul trionfo del diritto: la contrizione sarà esaltata, mentre la soddisfazione legalistica sarà condannata. Solo la misericordia di Dio ci può salvare. L’insegnamento della parabola è chiara e semplice: l’unico modo corretto di porsi di fronte a Dio, nella preghiera e nella vita, è quello di sentirsi costantemente bisognosi del suo perdono e del suo amore. La giustizia che il fariseo vantava davanti a Dio come conquista di uno sforzo personale, il pubblicano l’ha ricevuta come dono misericordioso dal Signore. Siamo tutti chiamati a camminare secondo lo Spirito, seguendo Cristo, e dobbiamo sempre cercare di uscire dalla schiavitù del peccato e progredire nella libertà dei figli di Dio. Per fare questo dobbiamo riconoscerci peccatori: “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa”. La fede ci rivela la malizia profonda del peccato, che è il rifiuto dell’amore di Dio, ingratitudine, idolatria, ma ancora di più ci fa conoscere e sperimentare la misericordia del Signore Dio, Dio ama i peccatori. Solo alla luce della nostra chiamata alla santità si può comprendere il male provocato dal peccato e aprirsi al desiderio della conversione e del perdono, resi possibili dall’amore e dalla misericordia di Dio. “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa”. Questa umile consapevolezza costituisce il fondamento permanente del nostro cammino e il primo passo che dobbiamo compiere è l’umiltà. Riconoscere lucidamente la propria debolezza serve per rimanere umili, per essere miti con gli altri, per confidare in Dio, che ci ama così come siamo. Anche la Madre Speranza era fermamente convinta di questo: “Allontaniamo dalla nostra vita la tristezza. Questo non vuol dire che non debbano rattristarci i nostri peccati. Il peccato deve farci soffrire molto perché offende Gesù. Dobbiamo odiarlo e detestarlo, ma senza abbandonarci alla tristezza e allo scoraggiamento, dato che l’offeso è nostro Padre e il suo Cuore Misericordioso ci perdona e ci ama.” La prima condizione della salvezza è dunque la coscienza che nessuno di noi è giusto per se stesso e che se proprio vogliamo sapere qual è la nostra posizione davanti a Dio, l’unica verità è questa: siamo dei peccatori perdonati; qualunque altra convinzione a questo riguardo su noi stessi non corrisponde alla verità. Di conseguenza è altrettanto falsa la convinzione di sentirsi tranquilli in forza di opere buone compiute, come se Dio, dinanzi alle nostre buone opere, dovesse trovarsi come un debitore rispetto al suo creditore. Le nostre opere buone non fanno di Dio un nostro debitore, costringendolo a infonderci la sua grazia e darci la sua benedizione, per il fatto che siamo stati davvero bravi. Così al posto dell’orgoglio ci dovrebbe essere l’umiltà a caratterizzare la nostra vita e a guidare i nostri passi. Il pubblicano d’altra parte, pur partendo da una situazione oggettiva di colpa e di peccato, conserva intatte le sue possibilità di incontrare la Grazia di Dio, proprio perché non ha alcuna pretesa da accampare e alcun pregiudizio d’orgoglio a cui appigliarsi per rivendicare a priori il diritto ad uno stato di Grazia. Certo, dovrà prima pentirsi e sentire il rimorso delle sue azioni, ma sarà poi libero di percorrere la strada del ritorno alla casa di Dio senza condizionamenti. Vivere la misericordia in senso evangelico presuppone sempre che l’uomo entri in una nuova dimensione: quella non solo della conoscenza della gratuità di Dio e dell’amore disinteressato di Cristo per ognuno di noi, così come siamo, ma anche di restare umili di fronte a Dio. Una persona umile è essenzialmente una persona modesta e priva di superbia, che non si ritiene migliore o più importante degli altri. Restare superbi nel proprio orgoglio diventa un atteggiamento che chiude automaticamente la strada alla misericordia di Gesù, il quale non è venuto per Le nostre opere buone non fanno di Dio un nostro debitore, costringendolo a infonderci la sua grazia e darci la sua benedizione, ma per coloro che si riconoscono peccatori ed incapaci di praticare il bene senza il suo aiuto. Dobbiamo credere concretamente nella misericordia che Gesù ci offre senza alcun limite; dobbiamo fargli dono del nostro nulla tutte le volte che le nostre mancanze e le nostre debolezze ce ne facessero fare l’esperienza, convinti che questo dono, se accompagnato dal proposito di ricominciare subito, non è un atto di superficialità, ma un atto di amore puro, che attira il suo perdono e la sua grazia, ed è la risposta più bella che possiamo dare al suo Amore. Senza l’umiltà, senza la capacità di riconoscere pubblicamente i propri peccati e la propria fragilità umana, non si può raggiungere la salvezza e neanche pretendere di annunciare Cristo o essere suoi testimoni. Dobbiamo sempre ricordare che la ricchezza della grazia, dono di Dio, è un tesoro da custodire in “vasi di creta”, perché sia chiara la straordinaria misericordia di Dio, di cui nessuno si può appropriare, magari per il proprio “curriculum di opere buone”. L’uomo trova posto nel cuore di Dio soltanto quando riconosce che Dio è l’unico Signore e che dunque davanti a Dio egli non può stare se non in ginocchio con umile gratitudine per un privilegio del tutto immeritato. Naturalmente i piccoli, gli umili, i poveri, gli oppressi, sono coloro che meno di altri fanno fatica a riconoscersi “abbassati” davanti al Signore. Qui l’indicazione è preziosa: l’umiltà si impara accogliendo come occasione preziosa gli abbassamenti della vita. Chi vive un’esistenza che gli ricorda spesso i suoi limiti fa meno fatica di altri a capire quale sia il suo posto nella relazione con Dio. E d’altra parte, proprio lì fa esperienza della presenza di un Dio che predilige gli umili. La salvezza è data in dono senza alcun merito, e chi è riconoscente è mite e umile. Il carisma dell’Amore misericordioso è fortemente caratterizzato da questa grande virtù, Gesù ha donato se stesso, fino alla morte più umiliante, “assumendo la condizione di servo”, ossia rinunciando al potere. Egli non ha voluto, come avrebbe potuto innalzarsi su nessuno, ha fatto tutto questo per rivelare la sua “natura divina”, che è l’amore. Un amore che solidarizza con noi al punto da voler condividere tutto della nostra esistenza per farci condividere tutto della sua. Il Cristo è l’incarnazione del perdono di Dio e ne svela la profondità infinita sulla croce, questa è la misericordia che libera il cuore dell’uomo e gli dona il potere di perdonare l’imperdonabile, l’obiettivo della sua missione fu proprio quello di rivelarci Dio, testimoniando al mondo quanto sapeva di Lui: soprattutto la misericordia che sempre chiama, accoglie, perdona e salva.” L’uomo trova posto nel cuore di Dio soltanto quando riconosce che Dio è l’unico Signore e che dunque davanti a Dio egli non può stare se non in ginocchio con umile gratitudine per un privilegio del tutto immeritato”. La Madre Speranza nei suoi scritti evidenzia molte volte le caratteristiche dell’umiltà, scriveva così: “Credo che l’umiltà, la carità, la fiducia debbano essere le nostre armi di difesa. La fiducia in Gesù, nonostante le nostre miserie, è una consolazione per l’Amore Misericordioso. Con amore dobbiamo aiutare le anime ad esercitarsi nell’umiltà, cercando nello stesso tempo di sradicare da noi l’«io», per essere caritatevoli e sacrificati.” Ed in maniera ancora più chiara evidenziava: “Ricordate che la pietra basilare su cui edificare la nostra santità non è la preghiera, fare novene, né le molte devozioni e le penitenze cercate per noi stesse; ma la carità, la rinuncia, il sacrificio e l’umiltà. Certamente la preghiera ci attira le grazie, ma anche se queste cadessero su di noi come un diluvio, non saremmo mai caritatevoli, mortificate, pazienti ed umili, se non lavoriamo seriamente per dominare noi stesse”. Nel suo Diario troviamo una bellissima preghiera: “Fa, Gesù mio, che abbia sempre in mente che la carità e l’umiltà sono il fondamento della santità e che la raggiungerò solo col tuo amore. Gesù mio, so che il mio povero cuore non riuscirà mai ad amarti come meriti, ma io ardo dal desiderio di amarti e unirmi a te, perché tu possa comunicarti a me”. Ma il centro delle sue riflessioni si possono tranquillamente ricercare in quest’altro scritto, dove la Madre Speranza fa risaltare in maniera determinante il legame esistente tra umiltà e misericordia, condizione essenziale per fare esperienza dell’amore di Dio: “Non lasciamoci prendere dalla tristezza di fronte al cumulo delle nostre frequenti cadute. Anzi, al contrario, ricolmi di fede e, considerando le nostre miserie, con umiltà e totale confidenza nel nostro buon Padre, ricorriamo a Lui, chiediamogli nuovamente perdono e la grazia di proseguire il cammino, costi quello che costi. Egli, che conosce bene la natura umana e vede i nostri sforzi e desideri, porterà avanti con calma e pazienza il nostro perfezionamento.” Gesù, con la sua incarnazione, ci ha rivelato come Dio agisce ed opera nei confronti dei propri figli. Il suo modo di amarci va ben oltre la nostra logica, le logiche quantitative per Dio non valgono, nell’amore lui sa contare solo fino a uno!
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